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BIGAZZI GLORIA ED ETERNITÀ
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" per tutti quelli cresciuti a latte e Tozzi" by belaire e gnaro
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di Athos Enrile
Poter chiacchierare con Franco Daldello è stato per me un grosso privilegio.
Dopo pochi minuti di conversazione mi sembrava di essere assieme ad un vecchio amico, e mi riferisco alla semplicità con cui mi ha sintetizzato cinquant’anni di storia della musica italiana.
Lui, è l’uomo che, dopo un pò di gavetta alla Ricordi diventa socio dei Rapetti – padre e figlio – e di Battisti alla Numero Uno; e poi alla Sugar, e poi anni importanti alla Peermusic, multinazionale americana di cui è stato Amministratore Delegato.
Cinquant’anni di vita, cinquant’anni di storia e cultura nostrana, il tutto condensato nell’intervista a seguire, che mi pare rappresenti la perfetta immagine di quanto è accaduto nel recente passato, percepito dalla massa come effetto, ma per pochi eletti vissuto in prima persona da protagonisti, da creatori, da innovatori.
Credo che Franco Daldello sia un nome conosciuto solo tra gli addetti ai lavori, solo perché, seguendo la propria indole, ha svolto il suo lavoro dietro al banco di regia, lasciando ad altri la piena visibilità. La mia impressione è che qualunque lavoro Franco avesse scelto – un tempo esisteva la possibilità di cernita – il suo modo di vivere, professionale e oltre, non sarebbe cambiato.
Abituati alle figure del presente, all’urlo imperante, alle distorsioni della tecnologia, una figura come quella di Daldello mi è sembrata quasi didattica, rassicurante, da prendere ad esempio. Certo, il mondo musicale da lui vissuto non esiste più, ma è bene raccontare ai giovani che c’è stato un tempo in cui…

Mi piacerebbe sviscerare un pò la tua carriera professionale, visto che è stata lunga e piena di eventi significativi in ambito musicale.
Partiamo dal fatto che, dal punto di vista professionale, mi sono sempre ritagliato un ruolo secondario, senza cercare la visibilità, ma gli eventi accumulati sono tanti, e nel racconto che posso creare oggi, a posteriori, rischio di diventare prolisso, magari ingigantendo certi successi ottenuti, ma ci tengo a sottolineare come i traguardi che ho raggiunto in gioventù siano sempre stati frutto di una squadra coesa… il team funziona sempre se al suo interno si è ascoltati. Io ho fatto 50 anni esatti di professione, partendo dal ruolo più basso, dal “ragazzo di bottega”, entrando alla Ricordi il 1 aprile 1964, proprio quando Bobby Solo era l’idolo del momento con “Una lacrima sul viso”, appena presentata a Sanremo, e regnava l’euforia conseguente al successo di vendita.
Ma come sei arrivato alla Ricordi? Passione per la musica, semplice opportunità di lavoro o entrambe le cose?
Nell’ultimo libro di Mogol c’è un accenno a come io entrai nell’azienda.
Il giovane Mogol all’epoca si spostava a Roma come rappresentante della Ricordi, perché gli editori, esistendo allora solo la RAI (che prevedeva l’esistenza di commissioni di ascolto, barriere varie, censura…) si spostavano per portare le novità e convincere i programmatori radiofonici – antesignani dei D.J. – di proporle nei vari programmi disponibili, nella speranza che diventassero dei successi attraverso la promozione radio. In questo frangente lui conobbe mio papà, musicista (violinista), abbastanza quotato negli anni’20 in ambito jazz (mio padre era nato nel 1900), che ai quei tempi era diventato anch’esso un programmatore radio. Un giorno tornarono a Milano insieme, e nel corso del viaggio ci fu tempo per parlare in modo approfondito, e mio padre gli raccontò, anche, di me. Successivamente lo conobbi perché venne a casa nostra. Io facevo ragioneria in uno stabile vicinissimo agli uffici della Ricordi e, avendo una buona libertà (i miei erano separati e mio padre lavorava lontano) spesso sceglievo di non frequentare le lezioni per andare a trovare Mogol in ufficio. Stiamo parlando di un giovanissimo Mogol, che però aveva già vinto Sanremo nel ’61 con “Al di là”, una canzone non certo amata da noi giovani: diventammo amici e iniziammo a frequentarci con una buona periodicità.
Dopo il diploma trovai subito lavoro come impiegato in un’azienda, ma il tipo di attività mi procurava una discreta angoscia; un giorno Mogol favorì un incontro con suo papà, Mariano Rapetti, all’epoca amministratore delegato della Ricordi – una grande figura, il mio maestro, sia professionalmente che umanamente – che mi propose di lavorare con lui, specificando che negli ultimi due anni erano state provate 4-5 persone nello stesso ruolo, ma senza successo, quindi rischiavo di rimanere senza alcun lavoro, nel caso avessi fallito anche io. Entrai quindi nel 1964, uscendone poi a fine giugno 1969, ricominciando a settembre nella neonata Numero Uno come socio, assieme ai Rapetti, padre e figlio: partendo dal ruolo più modesto in azienda, dopo sei anni, mi ritrovavo socio della Numero Uno, con tutti i personaggi storici conosciuti di cui sai.
Quindi il passaggio alla Numero Uno fu una promozione?
Certo; io nel frattempo avevo avuto altre offerte, anche molto vantaggiose economicamente, ma Mogol, oramai in disaccordo con l’establishment della Ricordi, mi espose il progetto che aveva in mente, ed io rimasi affascinato dall’occasione che mi si prospettava davanti, un vero cambiamento, che mi avrebbe portato a contatto con artisti di spessore, Lucio Battisti su tutti.
Questo tuo primo periodo lavorativo/formativo ti ha dato delle buone soddisfazioni?
Moltissime. Devi sapere che quando diedi le dimissioni dovetti dare anche il preavviso, che era di tre mesi. In quel periodo – ma erano altri tempi – riuscii a piazzare un centinaio di brani… mi viene in mente “Non credere” di Mina. Di quei giorni mi è rimasto nel cuore il mio rapporto con Luigi Tenco; ricordo che Mogol fece il testo di tre canzoni che poi furono musicate da Tenco; io, col pianista Aldo Rossi andai allo Studio Zanibelli, ora di Mauro Pagani, e realizzammo tre provini – pianoforte di Rossi e voce di Tenco – e uno dei tre era “Se stasera sono qui”. Tenco ebbe grande successo soprattutto dopo la sua morte, e ricordo che a quei tempi mi rimproverava di non piazzare mai le sue canzoni. Successivamente riuscii a convincere Guido Rignano e Lucio Salvini a rispolverare quel provino inedito, che poi ebbe il successo che sai con Wilma Goich.
Ma cosa era il tuo, talento o il trovarsi al posto giusto al momento giusto o… anche un pò di fortuna?
Beh, la fortuna è ovviamente una componente importante, ma occorre pensare che all’epoca, quando tutte le case discografiche erano di proprietà italiana, esisteva una vera e propria scuola formativa, e riguardando indietro e pensando al mio ruolo non ero certo un’eccezione, erano tanti quelli bravi e attivi, capaci di scoprire ottimi artisti; ogni casa discografica possedeva una fucina di talenti dal punto di vista manageriale – talent scout, editori, autori, e vorrei sottolineare il ruolo di alcuni miei… coetanei, come Adriano Solaro, ex Presidente della Warner Chappell, e Michele Del Vecchio, ex proprietario della Come il Vento, editore di Baldan Bembo, Maurizio Fabrizio e altri.
Stai parlando di funzioni che non esistono più o sono largamente ridimensionate, sostituite dai talent…
E’ vero; il mio ultimo fiore all’occhiello, parlando da artigiano – come mi sono sempre considerato – l’ho realizzato quando, senza casa discografica che mi permettesse attività di promozione, per sei anni, assieme ai miei collaboratori abbiamo lavorato con Raphael Gualazzi, musicista in cui credevamo; lo presentai a Sanremo due volte senza successo, e alla fine mi decisi: dopo avere fatto otto provini di qualità li proposi a Caterina Caselli Sugar, che capì subito che poteva essere un artista giusto per la sua etichetta e lo portò al festival, dove Gualazzi vinse nella sezione giovani, nel 2011. Certo, fa una musica dedicata ad una nicchia, ma io lo vedo bene, in prospettiva futura, in una sfera cantautorale tipo Paolo Conte, anche se ovviamente non ha ancora il retroterra cultural-musicale giusto, vista l’età, ma è un ottimo pianista e può diventare una realtà consolidata.
Ritorniamo alla Numero Uno: che cosa ti è accaduto di significativo in quel periodo?
Come ti ho detto, al di là delle vicende che mi hanno portato all’uscita dalla Ricordi, esisteva una condizione di piena soddisfazione e stima che legava me a Mogol e a suo padre, e quindi mi diedero la possibilità di diventare loro socio, ed entrai con le stesse quote di Lucio Battisti, anche se ricordo che per poter mettere la mia parte dovetti fare i salti mortali; pensa che RCA ci fece un finanziamento considerevole con la clausola che dopo un anno dalla restituzione del prestito avrebbero avuto il diritto di entrare come soci al 50% e quindi… fummo dei veri polli! Uno dei soci – Sandro Colombini – dopo un annetto se ne andò e io e Battisti ci dividemmo equamente le quote di Colombini, senonché tutto – e per tutti i fondatori – si dimezzò con l’ingresso della RCA. Ma la Numero Uno era la nostra famiglia e noi eravamo degli appassionati, così come capitava in quei giorni anche nelle altre entità simili, e c’era spazio – e possibilità di vendita – per tutti gli artisti, e Orietta Berti e la Cinquetti potevano coesistere con Battisti e De Andrè, molto diversi tra loro: oggi, come ben sai, tutto è cambiato.
La Numero Uno si rafforzò successivamente quando entrò Mara Maionchi come Ufficio Stampa, e Mara piazzò la sigla del Festival Bar che era “Questo folle sentimento” della Formula 3. Da quei successi nacque l’opportunità di restituire il denaro alla RCA, con le conseguenze a cui ho accennato. Battisti era importante ma all’epoca non aveva una disponibilità economica che potesse contrastare la RCA attraverso un aumento di capitale. Ma ci tenevano buoni e cari perché portavamo un sacco di soldi, perché oltre alle quote societarie esisteva un contratto di distribuzione tra RCA e Numero Uno, e a noi era destinato il 40%; e poi nel consiglio di amministrazione tre erano RCA e due Numero Uno. Dopo cinque o sei anni sono nate delle serie preoccupazioni – Mogol dice legate alle manifestazioni politiche dell’epoca che davano una connotazione precisa a Battisti – ma in realtà avevamo perso tutta la nostra libertà e quindi l’entusiasmo. Non va dimenticato che Lucio Battisti era, a mio giudizio, il più bravo di tutti, e noi avevamo, per settimane e settimane, quattro o cinque brani tra i primi dieci della classifica italiana.
E quindi questa tua seconda parte di vita lavorativa è andata scemando e tu sei migrato in una nuova situazione…
Esatto… venduta la Numero Uno alla RCA – per statuto non c’erano altre soluzioni, in caso di vendita – ne abbiamo ovviamente tratto un vantaggio economico, anche se esiste il rammarico di non aver potuto vedere che cosa sarebbe diventata se avessimo continuato; io arrivai alla Sugar Edizioni proponendo a Piero Sugar, come a quei tempi si faceva, di realizzare una società editrice al 50%… come dire: “Lei mi finanzia e io porto con me Mario Lavezzi, Oscar Prudente, Bruno Lauzi, Alberto Radius…”. Lui mi propose il ruolo di dirigente (lo ero diventato nel ’71) con l’intesa che io avrei portato con me i “miei“ artisti.
Accadde che dopo pochi mesi, per 800 mila lire, riscattai il contratto che avevo fatto personalmente a Umberto Tozzi. Umberto venne con me alla Sugar e mi pare che globalmente ottenne tre milioni alla stipula del contratto discografico. In quei giorni incontrai Bigazzi – avevo Umberto sotto braccio – e gli dissi: “Giancarlo, se tu lavori con questo ragazzo ti faccio triplicare i tuoi incassi SIAE…”; lui, lo stesso week end lo portò con sé a Firenze. Tornarono al martedì con tre canzoni, una si chiamava “Mi manca”, interpretata poi da Riccardo Fogli e Marcella Bella in un LP, un’altra era “Donna amante mia”, che è stato il primo singolo di Tozzi e la terza era “Io camminerò”. Tutto questo prima di arrivare a “Ti amo” – successo mondiale. Avevo avuto ragione!
Dopo un periodo difficile di assestamento alla Sugar trovai la seconda persona che mi ha insegnato molto dopo Mariano Rapetti, Ettore Carrera, il capo delle Edizioni Sugar, e l’idea condivisa dai vertici era quella che in futuro avrei preso il suo posto. In quel periodo le cose si erano un po’ rovesciate, ed eravamo noi editori a portare i brani di successo alla discografia, e io avevo dato il mio bel contributo. Con Bigazzi si era stabilita una grande amicizia e collaborazione; lui aveva un borsone con tutti i suoi progetti, e un giorno venne da me e mi fece sentire dei provini di una cantautrice e, visto che ormai mi conosceva bene, capì dalla mia espressione che non mi convinceva. Mi propose allora un’altra cosa, fatta col revox, un po’ frettolosa: ascoltai e gli dissi di dimenticare la cantautrice mentre il brano del secondo interprete poteva essere a mio giudizio un… successo mondiale: era “Self Control” e il cantante era RAF.
Mi piace sottolineare che queste cose non erano il frutto del lavoro di una sola persona. Nel nostro caso avemmo un grande appoggio da un nostro collega e grande amico – mancato molto giovane -, Elio Gariboldi, che viveva in Germania. Monaco era un punto nevralgico in Europa per lo smistamento dei successi e lui ebbe ruolo importante perché il produttore di Laura Braningan era tedesco, e aveva un rapporto consolidato con Elio, e produsse la Braningan con lo stesso arrangiatore che aveva lavorato a Monaco alla realizzazione di “Gloria”, di Tozzi.
Nella preparazione di un LP da dodici tracce della Braningan c’era rimasto un unico vuoto, il dodicesimo pezzo, e l’arrangiatore propose come riempitivo “Gloria”. Il resto è storia! Laura Braningan incise poi anche “Self Control”… il mio fiuto, a proposito di RAF, non mi aveva tradito.
Il mio ruolo allora era proprio quello di dare indicazioni risolutive… magari l’autore arrivava con due canzoni e dopo un po’ di taglia e cuci diventava una sola. Un esempio classico è “Io vagabondo”: erano due canzoni, con musica di Damiano Dattoli; lui venne da me con queste due musiche e io lo consigliai… tagli qui e attacca lì, che non è strofa e inciso, ma strofa e strofa, quindi non una cosa semplice. Successivamente Alberto Salerno – che era un giovane poco più che ventenne – scrisse il testo, e la canzone, ancora oggi, resta una delle cinque canzoni che incassano di più alla SIAE. Questo episodio fa riferimento, ovviamente, al periodo della NUMERO UNO.
Attualmente l’editore è anche un amministratore e io ho ormai la saggezza per comprendere che oggi non avrei la lucidità giusta per capire i cambiamenti in atto, che sono enormi.
continua (…)
Franco Daldello e cinquant’anni di storia della musica italiana – INTERVISTA
Annalisa, Curreri e Tozzi tra gli artisti.
Paola Maria Farina / 13 giugno 2016
Torna su Retequattro, martedì 14 giugno, la serata-evento dedicata alla grande musica italiana. L’appuntamento, questa volta, è con Una serata Bella… Per te, Bigazzi!, dedicata alle canzoni dell’autore toscano che ha firmato pezzi come Rose rosse, Montagne verdi, Lisa dagli occhi blu, Ti amo, Gloria, Si può dare di più e Gli uomini non cambiano. A condurre il concerto, introducendo gli artisti, è Alfonso Signorini affiancato da Rosita Celentano, mentre Giuseppe Cederna apre la serata sulle note della colonna sonora del film premio Oscar Mediterraneo, realizzata nel 1991 proprio da Bigazzi.
Il palco del milanese Teatro Dal Verme ospita alcuni dei nomi più amati del panorama musicale italiano accompagnati da un’orchestra di 20 elementi diretti dal Maestro Adriano Pennino. A regalare un omaggio al maestro sono attesi Umberto Tozzi, Gaetano Curreri, Anna Tatangelo, Marco Masini, Aleandro Baldi, Mario Tessuto, Deborah Iurato, Emma Morton, Simona Molinari, Francesco Gabbani e Annalisa, oltre all’immancabile Marcella Bella.
Una serata Bella… per te, Bigazzi! è prodotta da Colorado Film.
Alfonso Signorini e Rosita Celentano conducono un nuovo appuntamento dedicato alla musica

Una serata bella per te, Bigazzi arriva dopo Una Serata Bella – dedicata a Gianni Bella in prima serata su Rete 4 a gennaio 2016 – e Una serata bella per te, Mogol trasmessa lo scorso marzo.
La rete ora diretta da Sebastiano Lombardi, quindi, fa nuovamente affidamento sul produttore Maurizio Totti della Colorado Film e decide di puntare tutto su nuove puntate speciali dedicate alla musica e con Alfonso Signorini e Rosita Celentano coppia di conduttori, a quanto pare sempre più affiatati!
In particolare, infatti, sono due le novità in programma su Rete 4: Una serata bella per te, Bigazzi, in onda martedì prossimo, e Una serata bella per te, Modugno e Migliacci, prossimamente in onda ma registrata l’11 giugno 2016 alla presenza di ospiti come Rita Pavone, Nek, Morgan, Anna Tatangelo e Fausto Leali.

22/02/2016 di
Sandro Giorello
Oltre al suo lavoro di autore e di cantautore, Riccardo Sinigallia è uno dei produttori più apprezzati d’Italia. Ha lavorato con Niccolò Fabi, Max Gazzè, i Tiromancino, Luca Carboni, Coez e molti altri. A breve partirà anche con un nuovo tour (il 5 marzo al Monk di Roma, qui tutte le altre date). Lo incontriamo nel suo studio per farci raccontare in anteprima “La fine dei vent’anni”, l’album solista di Francesco Motta, e si finisce a parlare dello stato di salute del pop italiano: cosa c’era una volta e cosa, invece, andrebbe valorizzato oggi (Calcutta e Iosonouncane in testa a tutti). E poi si parla di autori, di discografici, di direttori di radio e dell’italiano medio che, alla fine, tanto medio non è.
Partiamo dalla tua collaborazione con “La fine dei vent’anni”, il primo album solista di Francesco Motta. Conoscevi i suoi dischi con i Criminal Jokers? Dal vivo erano qualcosa di potente, una delle poche band davvero credibili pur cantando in inglese.
È stato uno degli aspetti che mi ha colpito di più: avevano questa forza, decisamente anglosassone, che non poteva lasciarti indifferente. Di solito, però, queste sono le cose che mi fanno allontanare subito da una band, sono un po’ come le tette al silicone. Per me la potenza, la visceralità, c’è solo se ti esprimi in italiano.
I testi sono molto importanti per te?
Per me il testo è il centro di una canzone. Purtroppo tutte le canzoni pop che escono adesso scimmiottano quelle che vengono da fuori, siamo totalmente succubi della musica che viene dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti.
Io, invece, direi che il nostro pop è decisamente chiuso in se stesso: non mi pare ci sia un vero confronto con l’America e rimaniamo sempre in ritardo rispetto al loro mainstream.
Intendevo dire che all’estero la canzone viene scritta in relazione alla cultura e a luogo in cui si vive: in ogni canzone pop, c’è un testo pop che, a suo modo, significa qualcosa. In Italia non ci sono più i testi, ci sono dei suoni di parole. Facciamo questi surrogati allucinanti dove le parole non significano più niente. Si fa così (si siede al piano e suona, NdA), si trova una melodia che ricorda le hit straniere ma per farla funzionare non puoi cambiare la metrica e allora adatti le parole. Nascono per un’esigenza formale, non per una la necessità – autoriale o, quanto meno, umana – di esprimere qualcosa che ci riguarda. E non è sempre stato così, anni fa anche il pop più basilare aveva il suo senso: “Ti amo” di Umberto Tozzi, che certo non era tra le mie preferite dell’epoca, aveva un testo chiaro. Succedeva perché c’erano dei signori autori, come Bigazzi e tanti altri, e c’era del coraggio letterario.
Sono d’accordo sul fatto che molte delle canzoni del pop italiano di oggi non dicano niente. Stiamo assistendo però ad un ricambio di autori – Tommaso Paradiso, Dario Faini, Alessandro Raina, ecc – che potrebbe portare risultati interessanti. Certo le produzioni sono ancora pessime e non è mai chiaro se la colpa sia dei discografici, dei produttori o degli autori stessi che non si impongono.
Il solito concorso di colpe (ride). Non voglio dire che non ci sia qualità anche oggi ma è certamente mancato uno switch culturale che avrebbe dovuto portare determinati nomi come Francesco Motta o Iosonouncane – che per facilità chiamiamo indie – a diventare il nuovo pop. Sei i primi dischi di Carboni uscissero oggi verrebbero considerati indie, idem per Dalla. Invece Carboni, Dalla, Battisti, Battiato, De Gregori erano considerati pop, erano dischi a loro modo difficili ma avevano comunque un largo pubblico. E ce l’avevamo grazie a discografici appassionati, fanatici della scrittura e della composizione. Tutta gente che avrà sicuramente fatto tanti sbagli ma che ha investito su di loro e gli ha affiancato degli autori con le contro-palle. Prendi Renato Zero insieme a Franca Evangelisti, hanno scritto canzoni fantastiche. Tutti i dischi di quel periodo possono piacere o meno ma avevano forte una motivazione di esistere.

(Iosonouncane, foto di Silvia Cesari)
Questa può essere una delle differenze più importanti tra oggi e il passato? Oggi l’artista fa quasi tutto da solo mentre prima era sempre affiancato da persone di grande talento?
Provocatoriamente ti direi che non vedo grosse differenze. Motta o Iosonouncane, stanno facendo un percorso simile a quello dei vari De André, De Gregori, Battiato e certamente non sono meno interessanti. Il fatto è che non hanno più un pubblico che li ascolta. Ci sono gli appassionati, tutti divisi nei loro microcircuiti, ma l’audience generalista è affidata a questo mostro, questa musica che resta in sottofondo senza lasciare segno. Calcutta ha il potenziale per lasciare un’impronta importante, cosa che qualunque delle canzoni di Sanremo di quest’anno non farà. Lo stesso vale per Iosonouncane.
Il suo è stato il disco dell’anno di Rockit, sinceramente speravo che avesse un po’ più di attenzione da parte del pubblico, come è successo a Le Luci Della Centrale Elettrica per intenderci.
È certamente una proposta più intellettuale rispetto a quella di Vasco Brondi. Lui mi sembra, e lo dico in accezione positiva, più adolescenziale. Brondi sa cogliere certi disagi e comunicare chiaramente delle idee precise. E poi è un bel ragazzo e questa, forse, è la cosa principale. Sono convinto che nella storia della musica italiana l’aspetto fisico sia sempre stato un fattore importante. Non per forza devi essere bello, puoi anche essere brutto come Lucio Dalla ma devi colpire l’attenzione, in primis esteticamente. C’è sempre un po’ questa cosa del fenomeno da baraccone: o sei bello, o sei particolare, o sei molto aggressivo nel comunicare. Un Nick Drake in Italia non sarebbe mai stato notato. Per me, da sempre, il paradigma è Nino Bonocore: ha scritto delle canzoni meravigliose ma non se l’è mai filato nessuno. E a me dispiace tantissimo perché mi sento molto Nino Bonocore (ride).
Cosa ti ha spinto a lavorare con Motta?
Di solito ci devono essere tre elementi: economico, musicale e umano. Per Francesco il primo è stato veramente minimo – ci ho proprio rimesso (ride) – ma era talmente forte quello umano… Siamo amici, i miei figli si sono innamorati di lui e della sua ragazza che è stupenda, carinissima. Un giorno mi ha fatto sentire quattro canzoni e ho capito che ne valeva veramente la pena.
Hai un metodo preciso quando lavori?
Quando decido di lavorare con qualcuno tutto è assolutamente relativo alla sua proposta espressiva. Di base parto dall’unione della musica nuda, l’accompagnamento, il ritmo e le parole.
Sei molto severo?
No, ma sono comunque molto esigente.

(Coez)
Ho chiesto un parere su di te a Coez, con cui hai lavorato nel 2013, e mi ha scritto: “Singallia, oltre ad essere un capo nella produzione, ha anche una grossa sensibilità per quello che riguarda la scrittura (e non è scontato che un produttore ne abbia). Ancora oggi quando sto troppo sullo stesso spezzo sento la sua voce che mi ripete “Silvà te ne devi annà mo”, vuol dire che devo far decollare il pezzo in un altro modo”. Mi spieghi meglio questo “te ne devi annà”?
È che a volte si sviluppano delle pigrizie di tipo formale. Parliamo sempre di pezzi tra i due e i cinque minuti e spesso succede che si finisca con il seguire sempre il medesimo “schemino”. La magia di una canzone c’è quando ha un grande impatto emotivo, sopratutto su chi la scrive: se lui non è il primo ad emozionarsi metto in pausa tutta l’architettura, l’arrangiamento, la post produzione e gli chiedo se è davvero convinto di quello che sta cantando. Per me una bella canzone la si arrangia da sola.
Una canzone può diventare decisamente impegnativa a livello emotivo?
La canzone può smuovere tutto il sistema delle emozioni di un essere umano: dall’ansia più profonda, alla sofferenza, alla gioia, alla commozione, alla comprensione. Ieri ho risentito “Che male c’è”, una canzone che ho scritto e prodotto con Valerio Mastandrea dedicata ad Aldrovandi. Mi è parso di averla capita veramente solo ora, nonostante l’abbia scritta sei anni fa. E come se, per la prima volta, l’avessi ascoltata per davvero. Quando questa cosa succede è una roba di una bellezza unica. Scrivere una canzone sembra un atto semplice ma ti può portare alla psicoanalisi, all’autoanalisi, alla scoperta di cose di che non avresti mai pensato.
Tutto questo mondo che mi ha descritto così bene, quando è di qualcun altro e quindi sei tu a dover produrre e maneggiare le sue emozioni, come funziona?
È molto delicato va e trattato con cura. Per questo non ne faccio così tante di produzioni, richiedono un impegno sotto tanti punti di vista. Il conflitto emotivo ci può essere tra due persone diventa realmente una cosa grossa, dispendiosa e lunga. Poi però quando ce la si fa, quando ingrana, è molto bello. È una specie di innamoramento reciproco ed è molto stimolante.

(Francesco Motta nello studio di Riccardo, foto di Claudia Pajewski)
A prescindere dal vostro rapporto, con Motta ci sono stati dei punti critici mentre lavoravate?
Molti, sicuramente. Uno su tutti è che lui registra le parti a casa sua con un approccio decisamente puro e libero e spesso mi ha portato un insieme di tracce tutte scordate tra di loro. Ma questo generava una magia armonica storta che mi ha fatto innamorare dei suoi pezzi. Probabilmente qualcun altro avrebbe risuonato tutto accordando gli strumenti ma si sarebbe perso l’intero mondo di Francesco.
Sono canzoni molto ciniche, no?
No, per niente. Non lo definirei un disco solare ma direi che rappresenta bene il clima delle nostre città, Roma e Livorno.
“Roma stasera” è la più cattiva di tutte.
Lì c’è una frase mia e forse è la più cinica di tutte “mi bagni e poi mi lasci per terra”. Per me il cinismo è qualcosa che non lascia alcun tipo di comunicazione, è una mannaia dei sentimenti. Secondo me lui non è affatto cinico, Elio è cinico. Il cinismo ti porta ad indossare delle maschere per non dire cosa senti veramente, non mi sembra il caso di Francesco.
“Sei bella davvero” è forse la canzone che meno ti aspetteresti da Motta.
È colpa mia, c’è molto della mia musica in quel pezzo.
Il pregio migliore di Motta?
Il talento, questa sua enorme creatività. Lo considero uno dei migliori esempi della musica italiana di oggi.
Dal momento che le parole sono importanti, la frase più bella del disco qual è?
Ce ne sono diverse, forse “Sei bella davvero” è una delle più belle. È riferita ad un uomo: per me dire ad un uomo che si veste da donna “sei bella davvero” è una delle cose più incredibili e poetiche di sempre. Ma ce ne sono tante altre.
E questa vena alla Manu Chao chi ce l’ha messa?
Francesco, io lì non centro niente. “Mio padre era un comunista” era già così.
Però tu ce l’hai questa cosa delle chitarre in levare, no?
Mi piace mischiare l’elettronica con degli strumenti tradizionali. Un disco di elettronica pura difficilmente mi riesce a convincere. Allo stesso modo i cantautori minimalisti, chitarra e voce, mi annoiano tantissimo. I dischi che mi piacciono hanno sempre questi vari livelli, questi tanti scalini diversi, e non si capisce mai bene di che si tratta. Per quel che riguarda la chitarra, la mia mano destra mi va sempre in quel modo lì (ride). Per me è molto naturale e ho sfruttato questo mio modo di suonare perché lo ritengo una cosa molto mediterranea, molto nostrana. Il mio obiettivo è quella di fare musica italiana, utilizzo gli strumenti ed i suoni del mondo ma mi piace fare la canzoni italiane.
Dicono che sei uno che ci mette tantissimo a chiudere le tracce, è vero?
Si ma non è nulla di strano o di ossessivo. Il quadro ce l’hai sempre lì davanti e, ad un certo punto, capisci che è finito. Ogni canzone ha il diritto – una volta che è stata scelta, scritta e cantata – di essere portata al massimo delle sue possibilità. È la canzone stessa a dirmi che è conclusa. Ma non è che ci sia tutta questa follia dietro, è una cosa molto normale.
Quanto costi?
Per fare un disco, avendo già tutti i pezzi scritti, ci vogliono cinque mesi. Per come sono abituato a lavorare io, è il tempo minimo. Direi almeno 30.000 euro.
(…)
C ome dice Proust «la più umile delle canzoni ha la capacità di portarci indietro con la memoria». E Giancarlo Bigazzi, come compositore e paroliere, ha segnato quantant’ anni di vita e musica italiana. All’ autore di «Si può dare di più», scomparso lo scorso gennaio, Aldo Nove ha dedicato un libro a più facce: evocazione, poesia, saggio. «Il progetto è nato parlando con Caterina Caselli. Non mi ero reso conto che Bigazzi aveva scritto buona parte della colonna sonora pop della mia vita. Mia nonna ascoltava “Rose rosse” di Massimo Ranieri, in casa avevo i 45 giri di “Luglio” e di “Lisa dagli occhi blu”, quando ero piccolo ascoltavo gli Squallor di nascosto; e “Ti amo” di Umberto Tozzi mi ha sconvolto. Con la sua capacità camaleontica, Bigazzi era il tratto unificante di tutte queste canzoni. Ciò mi ha spinto a conoscerlo»
L’omaggio alla musica italiana famosa all’estero inizia sulle note di “Gloria” e con la voce di Frank Sinatra che canta “More”, composta da Riz Ortolani. Inizia Frank e continua Morandi che poi canta anche “Dio come ti amo” di Domenico Modugno, che qui vinse nel 1966, e “Gli uomini non cambiano”, cantata su questo palco da Mia Martini 20 anni fa. Come “Gloria”, “Gli uomini non cambiano” è uno dei grandi successi di Giancarlo Bigazzi, recentemente scomparso. Alla fine dell’esibizione Morandi ricorda Bigazzi e la vittoria di “Si può dare di più”, 25 anni fa, la sera in cui morì Claudio Villa.